Quella di Odisseo è figura più che famosa, non solo per la fortuna letteraria che sin dalla Grecia antica ebbe con l’omonimo poema – figura che viene ripresa successivamente secondo prospettive ed epiloghi diversi, tra gli altri, da Virgilio, Dante Alighieri, Ugo Foscolo, Giovanni Pascoli, Umberto Saba e James Joyce – ma anche per l’eco che ne ha nella cultura popolare, soprattutto per indicare ingegno, astuzia, furbizia.
Se Ulisse da un lato è l’inventore del Cavallo di legno che pone termine, dopo dieci anni, alla guerra di Troia in cui furono impegnati tutti gli eroi achei, dall’altro è spinto però a questa conclusione dal desiderio di ritornare in patria, agli affetti, alla sua famiglia. A Itaca, trepidanti, infatti lo attendono la moglie Penelope, la madre Anticlea e Telemaco, il figlio che non aveva conosciuto, perché – secondo una leggenda – Ulisse partì per la guerra il giorno della sua nascita.
Sconfitti i troiani, si apre quindi la grande avventura del ritorno. Ostacolato da Poseidone, l’eroe peregrinerà nel Mediterraneo per altri dieci anni, dovendo affrontare insidie palesi e anche subdole. Sono dodici le tappe che Omero nell’Odissea descrive e che vedranno comunque Ulisse non deflettere mai dalla sua ferma volontà di ritornare alla famiglia.
Se gli incontri con Polifemo, i ciclopi, le sirene, Scilla e Cariddi impegneranno l’eroe a prove d’ingegno, di forza, di resistenza, quelli con Circe e con Calipso sfideranno la sua volontà, i suoi principi morali, la sua fedeltà alla patria e alla famiglia. E dopo tanto peregrinare e l’uccisione dei Proci, l’ultima prova da affrontare sarà quella del talamo – il letto nuziale – richiesta dalla stessa Penelope: una sorta di definitiva conferma dell’essenza della famiglia nell’unione sponsale da tenere sempre viva nella memoria e riconoscere in ogni momento.
Sospinti da tale narrazione, gli antichi greci imparavano la loro umanità, i valori centrali della loro esistenza, le continua tensione tra smarrimento e riconoscimento del proprio sé e di ciò che fa fiorire – al di là di ogni sbandamento – l’essere più proprio dell’uomo, ad esempio, nella grandiosa esperienza dell’amore familiare e nell’appartenenza alla comunità d’origine, alle proprie radici.
Certamente, queste tematiche troveranno un importante sviluppo nella successiva riflessione filosofica di Socrate, Platone, Aristotele, ma conservano una lezione perenne e valida anche nel contesto attuale in cui la crisi antropologica e gli attacchi al nucleo familiare – tant’è che, ad esempio, Papa Francesco ha parlato di una “guerra mondiale per distruggere il matrimonio”, attraverso le colonizzazioni ideologiche – sono egemoni.
Il ritorno alla famiglia e al riconoscimento dell’essenza dell’uomo e dell’amore, oggi, appare urgente dopo delle vere e proprie tappe, susseguitesi nei secoli, che hanno osteggiato la famiglia sminuendola e alterandola in nome di una libertà dai legami che più che liberare rende schiavi gli uomini della mera sfera istintuale e non permette di riconoscere all’altro una piena dignità, ragion per cui non possono che essere all’ordine del giorno tanti episodi in cui le passioni si mutano in tragedie e anziché nutrire armonia viene prodotta solamente tristezza.
È l’ora, dunque, del ritorno alla famiglia e del ritorno all’uomo. Ciò costerà certamente fatiche e bisognerà stare attenti forse più alle insidie subdole che a quelle esplicite, ma esattamente, come per Ulisse, sappiamo che ne vale veramente la pena per non rimanere illusoriamente ammaliati dalle sirene ideologiche dei nostri tempi.
Daniele Fazio