L’Euromediterraneo è un territorio ricco, fertile e fiorente, in cui l’agricoltura è favorita massimamente anche dal clima mite. Centrale, dunque, è una figura che ha attraversato i millenni lavorando la terra per sé, per la propria famiglia, per gli altri: il contadino.
La sua attività, dunque, è imprescindibile a livello socio-economico e riveste non solo importanza in relazione al lavoro della terra per trarne frutti di sussistenza, ma anche a livello etico si staglia, per chi sa guardare, a metafora di comportamento saggio, rispettoso di ritmi che l’uomo non può padroneggiare e quindi di massima umiltà, in quanto, nonostante il sudore della propria fronte ha sempre a che fare con variabili indipendenti da esso e quindi che possono inficiare ogni sforzo umano.
La letteratura profana e religiosa non prescinde da figure e metafore tratte dal mondo contadino, narrandone, di tempo in tempo, anche le stesse vicissitudini. Dal mondo semitico: le narrazioni della Bibbia ci restituiscono personaggi come Caino, Noè, Isacco che sono lavoratori della terra e lo stesso Vangelo, e quindi l’insegnamento di Gesù, fa appello nelle parabole al mondo agrario: il seminatore, il seme, il grano, la zizzania, la vite e i tralci. La stessa tradizione della Chiesa ha appellato Gesù con il termine di “divino agricoltore”, oltre che naturalmente con quello di “buon pastore”.
L’esempio massimo nella letteratura antica del riferimento al mondo agricolo non possono che essere le Georgiche di Virgilio, un poema in cui si esaltano le virtù civili che scaturiscono a favore della collettività legate proprio al lavoro della terra e la figura del contadino, dunque, diventa veicolo ed esempio per tutta la societas romana.
Con molta probabilità, il titolo del poema virgiliano – che rivela l’origine greca – è anche ispirato all’omonimo componimento di Nicandro di Colofone. Tuttavia, nel mondo greco vi sono infinite testimonianze soprattutto da un punto di vista tecnico che ci narrano delle modalità di coltivazioni, della struttura delle fattorie, della classificazione dei prodotti della terra, dell’apicoltura, dello status nelle varie epoche dei contadini. Gli stessi greci sono stati definiti “mangiatori d’orzo” dai romani, che all’orzo prediligevano il grano, di cui la Sicilia costituiva grande risorsa.
Certamente, la vita dell’agricoltore intreccia oltre che aspetti saggi anche la lotta dura per l’affermazione e la sopravvivenza che declina, in qualche caso, in un ripiegamento su se stessi, sui propri averi, sulla “roba” – come riportato, ad esempio, da Giovanni Verga nel romanzo Mastro don Gesualdo – ma oltre questo ciò che l’esistenza contadina comunica sono valori perenni che non sono “appresi” in qualche scuola, ma grazie direttamente dalla realtà della propria vita e del suo rapporto con la terra, tant’è che il filosofo francese, Gustave Thibon – chiamato filosofo contadino – ha parlato di “realismo della terra”.
Tale realismo è una disciplina per l’uomo stesso che lo immunizza da visioni ideologiche, individualistiche, superomistiche e ricorda a ciascuno che, nonostante il proprio sforzo tutto è dono del cielo e che la pazienza è la virtù da applicare in ogni frangente della propria esistenza e della storia. Scrive Thibon: «Il contadino ha radici. Poiché ha radici, non teme il vento, non ha bisogno di assicurazioni contro il vento. In ciò sta il rischio. E ancora, poiché ha radici, non diviene mai il trastullo del vento. E in ciò sta il rifiuto dell’avventura».
Ciò non significa che tutti si debba essere contadini, ma certamente tutti possiamo riflettere su quella saggezza realista, quel buon senso fulcro del mondo agricolo, che in fondo ci spinge ad una verità pratica antica e sempre attuale, più facile a dirsi che a farsi, che recita: aiutati che Dio ti aiuta!
Daniele Fazio