Gli anni che vanno dal 1859 al 1870 videro ondate massicce di resistenza al progetto ideologico di unificazione nazionale che iniziò con l’invasione garibaldina del Regno delle Due Sicilie. Sbrigativamente la storiografia, sia liberale che marxista, con interpretazioni diverse, ha definito un tale fenomeno con il termine di «brigantaggio».

Il vocabolo è assolutamente indicativo di un giudizio negativo e fazioso derivante altresì dalla terminologia con cui venivano definiti dai rivoluzionari francesi gli insorgenti vandeani e gli insorgenti delle terre italiane che in armi si erano opposti, pochi decenni prima, alle imposizioni ideologiche che mutavano irrevocabilmente l’assetto tradizionale della società, il cui fondamento era il riferimento religioso.

Se di brigantaggio si deve parlare, allora, segnatamente alle vicende che videro i popoli del Sud-Italia opporsi fieramente all’impresa risorgimentale – vera e propria rivoluzione italiana – va precisato che “briganti” agli occhi degli unitari non sono semplicemente sbandati o criminali comuni che, per motivi vari, si insubordinavano al nuovo potere statale, ma aristocratici locali, nobili europei, religiosi, borghesi, funzionari pubblici, proprietari terrieri, braccianti, contadini, interi paesi lucani, calabresi e pugliesi, nonché campani, e anche donne (le cosiddette brigantesse) che hanno per circa un decennio combattuto una vera e propria guerra civile le cui cause intrecciano motivazioni legittimiste, socio-economiche, politiche, religiose e anche personali.

Secondo il clichè rivoluzionario “briganti” erano sì Carmine Donatelli, detto Crocco, Michele Caruso, Nicco Nacco e altri affini, che animarono bande insurrezionali, ma erano anche il generale José Borges, definito l’antigaribaldi, i politici che si opponevano in Parlamento ai trattamenti legislativi con cui veniva trattato il Meridione d’Italia, le magistrature locali, i sacerdoti e i vescovi che erano presenti accanto al popolo.

Il brigantaggio, così come il fenomeno vandeano in Francia e le insorgenze italiane antinapoleoniche, allora, è un episodio cospicuo della resistenza ad una mentalità politica e culturale che in nome della rivoluzione e della modernità vuole cancellare costumi, valori, religione e vuole traghettare i popoli verso un nuovo assetto socio-politico-culturale caratterizzato dal laicismo e dallo statalismo. Ed è così che su questi fondamenti si costruisce lo Stato moderno, di cui il Regno d’Italia, proclamato il 17 marzo 1861, ne è un esempio.

Il brigantaggio impegnò le truppe del neonato Regno per molto tempo e con provvedimenti che istituzionalizzavano la repressione violenta, la delazione, la legge marziale, l’opera arbitraria dei tribunali militari a danno delle popolazioni meridionali che imbracciavano sia una guerriglia partigiana che una resistenza passiva.

Per fornire qualche numero: già alla fine del 1861 i carcerati erano 47.700 e i fucilati 15.665. La resistenza investì 1400 centri abitati e in base a proiezioni ed ipotesi, per il decennio 1860-1870, si oscillerebbe secondo Roberto Martucci da una cifra minima di ventimila ad oltre sessantamila vittime. Sono dimensioni impressionanti, da lotta fratricida, italiani che uccidono italiani e che uniti male scavano l’abisso della loro divisione.

Per motivi complessi, il vasto movimento del brigantaggio post-unitario fallì, ma se da un lato in esso è segnalato l’ultimo tentativo di resistenza, anche in armi, all’imposizione di un “nuovo mondo” – per cui bisognava fare gli “italiani” per allinearli ai principi rivoluzionari – dall’altro esso è un evento che vide aristocratici, clero e popolo uniti nella difesa della patria comune, che certamente non va idealizzata in quanto nessun regno del mondo è perfetto, ma che d’altro canto dava delle motivazioni assolutamente valide e comprensibili perché fosse preservata da una invasione e da un trattamento che, secondo le parole del politico Pasquale Stanislao Mancini – riferendo alla Camera dei Deputati nel 1866 – se portato con precisione alla luce avrebbe fatto inorridire l’Europa.

Dunque, va depurato l’inquinamento storiografico liberale che bolla come criminalità comune il fenomeno, così come va superata l’interpretazione gramsciana che vede nel sollevamento popolare una lotta di classe tipicamente italiana. Tuttavia, oggi, non si tratta minimente di svolgere battaglie neoborboniche, ma semplicemente di rendere giustizia con una memoria storica quanto più corretta, perché brigante non sia più sinonimo di “criminale”, “mafioso”, ma di “insorgente” e di “partigiano del Sud”.

Daniele Fazio

Di Daniele Fazio

Dottore di ricerca in Metodologie della Filosofia, cultore della materia presso la cattedra di Filosofia morale del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Ateneo messinese con cui regolarmente collabora dal 2009. È stato borsista del Centro Universitario Cattolico ed è risultato vincitore del premio per un saggio di filosofia morale (2014), bandito dalla Società Italiana di Filosofia Morale. È docente di Filosofia e Storia nei Licei e corrispondente per la zona tirrenica della provincia di Messina della Gazzetta del Sud.

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