Ancora fanciullo, dalla sua Regalbuto (in provincia di Enna), dove era nato nel 1510, Giovanni Filippo Ingrassia si trasferì a Palermo e dopo a Padova. In queste due città, egli studiò medicina con importanti studiosi dell’epoca, come Andrea Vesalio, diventando lui stesso medico e studioso. La sua passione fu certamente la ricerca e l’attività accademica che lo vide docente per lungo tempo a Napoli. A lui, tra le altre cose, si deve la scoperta della staffa un ossicino che si trova all’interno dell’orecchio dell’uomo.
Accanto allo studio, l’esercizio medico lo vide avere in cura diversi personaggi riguardevoli dell’epoca come Isabella di Capua, moglie del vicerè Ferrante Gonzaga e il duca di Terranova, guarito da Ingrassia da una fistola toracica, che neanche Vesalio, medico personale dell’Imperatore Filippo II, era riuscito a curare.
La prospettiva della sua professione trova fondamento innanzitutto a partire da una lotta per depurare la medicina da aspetti magico-esoterici retaggio di quell’approccio misticheggiante alla natura proprio della filosofia della natura rinascimentale. Secondo Ingrassia, la medicina doveva staccarsi da questo orizzonte e legarsi sempre di più alla chirurgia. Quindi, si ascrivono a lui volumi sulla iatrologia, sui tumori, sulla peste e sulla medicina pubblica.
Finalmente venne il tempo, intorno agli anni sessanta del XVI secolo, di rientrare definitivamente a Palermo, dove fu nominato prima officiale della Santa Inquisizione, quindi protomedico della Sicilia e fu qui che, in prima persona, dovette fronteggiare la peste del 1575. Le armi che utilizzò furono: l’oro, il fuoco, la forca. Oro per mantenere gli indigenti, fuoco, ossia i provvedimenti di sanificazione delle case, e forca per una rigida osservanza delle normative per il contenimento del contagio.
Non solo, dunque, da un punto di vista strettamente medico, egli combatté il diffondersi della peste, ma anche attraverso l’emanazione di provvedimenti giuridici in tema di igiene e prevenzione. Tra i più significativi si ricordano: la politica di isolamento, la costruzione di numerosi lazzaretti, la promozione della quarantena, la proibizione di qualsiasi tipo di assembramento e la sepoltura dei cadaveri fuori dalle mura della città. Tutto questo fece sì che appena un anno dopo la peste lasciasse definitivamente Palermo e lui unanimemente ricevesse gli onori per il suo impegno e la sua professionalità.
Egli, tuttavia – uomo profondamente morigerato – rifiutò lo stipendio di duecentocinquanta onze che gli era stato attribuito dalla città di Palermo e di questo prese solo quanto gli servì per abbellire la cappella di Santa Barbara presente nel chiostro della Chiesa di San Domenico, dove le sue spoglie mortali riposano, dopo che la morte lo colse nel 1580.
Per questa unione inscindibile tra morale e professione medica, egli fu detto anche l’Ippocrate siciliano, tanto era palpabile la sua dedizione ai pazienti, soprattutto a quelli poveri, e la sua capacità di diagnosticare le malattie fondata sull’osservazione e sul ragionamento, e senza farsi imbrigliare da quanto già presente nei manuali galenici ad esempio. Lui consigliava ai suoi allievi che bisogna certamente stare in buon amicizia con Platone, Aristotele e Galeno, ma ancora di più bisognava essere amici della verità.
Con Ingrassia, la Sicilia nel XVI secolo divenne luogo apripista per importanti studi che caratterizzeranno alcuni aspetti della medicina moderna, tant’è che egli stesso è annoverato tra i suoi padri.
Daniele Fazio
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